venerdì, aprile 11, 2008

10.04.2008 Assassin's Creed arriva in versione PC

Siamo nell’anno 1191. La Terza Crociata sta ormai dividendo la Terra Santa. Tu, Altair, intendi fermare le ostilità eliminando entrambi gli schieramenti del conflitto. Tu sei un Assassino, un guerriero avvolto nel mistero e temuto per la sua crudeltà. Le tue azioni possono condurre ogni cosa nel caos e la tua esistenza determinerà lo scorrere degli eventi durante questo cruciale periodo storico.




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venerdì, aprile 04, 2008

Il terzo occhio del fotografo cieco

È nato in Slovenia 59 anni fa, parla sei lingue, vive a Parigi. Evgen Bavcar è un famoso fotografo d’arte ma ha perso definitivamente la vista quando aveva dodici anni.
“Non
chiedetemi come faccio ma perché lo faccio... le immagini non le fa la macchina, sono la materializzazione di un’idea, di un desiderio... l’immagine alla fine ci viene dal buio dell’ignoto”


Amore rosso
L’ultima cosa che ho
visto è sta
ta la gonna
rossa di una ragazza e la

stella sul berrett
o dei
soldati. Mi piace il rosso





Arpa nel vento
Ho toccato i capelli di
una donna: come u
n’arpa
sostenuta dal
vento. Ho
sfiorato la
sua bocca: una
ciliegia a maggio


Parigi


O
cchi azzurri. Dice: «Attenzione al gradino». Cappello nero. Indica: «Il bar è dell’altra parte della strada». Sciarpa rossa. Invita: «Questo è un bel posto per sedersi». Sembra il ritratto di Aristide Bruant nel quadro dipinto da Toulouse-Lautrec. Cammina spedito anche sulle scale. Si scusa: «Il mio appartamento è grande come un armadio». Una stanza piena di cartelle, di buste, di libri.

Alle pareti piccoli specchi. Una confusione, ma ordinata.
«Si sposti, le devo far vedere una cosa sul secondo scaffale».
Tocca e trova, lui. Evgen Bavcar ha 59 anni, è un fotografo d’arte famoso. Ha ritratto le attrici Hanna Schygulla, Kristin Scott Thomas, lo scrittore Umberto Eco, ma si è anche dedicato ai paesaggi. Parla benissimo e in maniera colta un misto di lingue. «Sono nato a Lokavec, in Slovenia, a 27 chilometri da Gorizia. Imiei genitori, austriaci, nel ’18 sono diventati italiani e nel ’45 jugoslavi. Mio padre è morto, soldato a Kiev, avevo sette anni. Mi sono laureato in filosofia a Lubiana, e ho un dottorato ottenuto alla Sorbona con una tesi sull’estetica in Adorno e Bloch. Ho studiato e parlo tedesco, croato, francese, ita
liano, spagnolo e da autodidatta il portoghese. Il mio sogno è andare a Napoli, fotografare ragazze stupende, mettermi i loro ritratti in borsa e passeggiare davanti al museo di Capodimonte in attesa di essere scippato. L’idea che la bellezza venga rubata e acquisita la trovo una performance artistica notevole».


Il buio poco a poco

Bavcar è un ossimoro. Fotografa, ma è cieco. Vede, ma vive nel buio. «Ho perso definitivamente la vista a 12 anni, dopo due incidenti. Prima mi ha ferito un ramo d’albero, poi un detonatore abbandonato. Da bambini giocavamo con fucili e armi, il fronte dell’Isonzo, della prima guerra mondiale, è stato il nostro campo giochi. La tragedia dell’Europa centrale è sotto i nostri piedi, i cimiteri sono la comunità europea sotto la terra». Il buio non è arrivato all’improvviso, ma poco a poco, la luce si è spenta lentamente, e tutto è stato più struggente. Non c’è nulla come il tramonto per capire come il tempo porta via le cose. «L’ultima cosa che ho visto è stata la gonna rossa di un ragazza e lastella sul berretto dei soldati, forse per questo mi piace tanto il rosso». Tira fuori la stella dalla tasca, il suo lecca-lecca, gusto nostalgia. Dice, senza sospirare: «Per me la pittura ha gli occhi chiusi». Racconta una favola: «In un villaggio di ciechi arriva un elefante. Alla sera, di fronte al fuoco ognuno descrive l’elefante. Chi ha toccato il naso dice: è come un lungo tubo. Chi ha toccato le orecchie: è come un tappeto. Chi ha toccato una gamba: è una colonna. Ognuno ha una versione diversa per quello che ha toccato. Anche noi siamo così: tutti ciechi di fronte all’universo.

Quanti veramente vedono?».

Una sua mostra si intitolava Il terzo occhio. Quello interiore: l’occhio del cervello, dell’immaginario, dello spirito. «Alcune donne, prima di essere fotografate, mi chiedono: sono bella? Io porgo loro questo specchietto e rispondo: guardati. La gente vive con i fantasmi. La notte è il luogo della nascita della luce: Eros e Psiche hanno vissuto nel buio, poi Psiche cercando la luce ha tradito. Io sono in quel buio arcaico e originale».

Molte immagini di Bavcar sono paesaggi notturni: una strada che si perde nel bosco, una città anonima, di notte, dall’alto, un cancello nel quale uno stormo di rondini è bloccato dalle inferriate. «Quand’ero bimbo associavo la luce del giorno con il volo delle rondini». Ci vuole astuzia contro il mondo, se sei cieco. «Se non avessi una cultura filosofica e psicanalitica non potrei difendermi. I ciechi nel mondo sono fragili, non hanno diritto all’immagine.

Quando fotografo devo ricordarmi di pulire sempre il vetro dell’obiettivo, nessuna macchina è fatta per i ciechi, ho messo delle tacche, bisogna trovare e darsi dei riferimenti che aiutino a sconfiggere il buio. E ora ho una causa in Slovenia per un documentario con il mio nome, che io non ho autorizzato».

Al buio si perde la memoria di cosa vuol dire correre: «Me ne sarei dimenticato se alcuni bambini non mi avessero domandato un giorno perché cammino così lentamente». Poi si perde lo spazio: «Si è ristretto, devo toccarlo per conoscerlo o sottrarlo al suo rumore». Poi la spontaneità: «Vado sempre negli stessi posti, precisi come luoghi geometrici, mentre ho spesso la voglia di perdermi in una foresta di cui non conoscerei i sentieri». Poi si smarrisce la musica: «La amo e la detesto. Quando penso che hanno voluto farla passare per la sola felicità dei ciechi, mentre era in realtà la loro unica possibilità di esistenza sociale. Ci hanno dato una cosa, che già avevamo». Quella che non si perde è la rabbia: «I cristiani hanno duemila anni di storia, eppure non mi risulta abbiano mai nominato un parroco cieco, i buddisti devono ringraziare una signora tedesca che è andata a Lhasa e ha tradotto in braille il sanscrito. Io non critico la religione, a me interessa il divino.

Ma devo parlare con un teologo per affrontare il tema dell’handicap. Io credo che quando Dio ha fatto il mondo era tutto troppo perfetto e ha dovuto creare la morte. L’handicap la ricorda. La morte inevitabile dello sguardo fisico è il cieco. Il protestantesimo si è evoluto e ha le donne pastore, spero che un cieco un giorno sarà rabbino».


Toccare per capire


Chiama nomi di donna: Isabel, Chantal, ma c’è anche Pascal. Sono i nomi che ha dato alla tecnologia che lo assiste: la macchinetta che traduce i colori, la bilancia che parla, l’orologio che dice l’ora, il termometro che avvisa della temperatura, il computer che legge i messaggi. «L’astronomia mi interessa perché è una materia dove ogni vedente è cieco e ogni cieco è un po’ vedente. Queste macchine che vanno sui pianeti sono moderni bastoni da ciechi, mandano segnali più perfezionati, ma anche loro devono toccare per capire.

L’immagine alla fine ci viene dal buio dell’ignoto. Una volta se lo schiavo guardava verso l’alto veniva ucciso, tutti abbiamo bisogno dell’invisibile».

Chiede: posso fare una foto? Sicuro, c’è bisogno di spogliarsi? «No, andiamo in terrazza». Un suo libro si intitola Le voyeur Absolu. Bel doppio senso, perché «voyeur» significa «guardone», anche e soprattutto in francese.

Bavcar fotografa nudi,ma solo di donne. «E non mi piacciono quelle con i capelli corti, perché assomigliano ai militari. Niente uomini, non ce la faccio. Gli uomini fanno la guerra, gli uomini mi hanno fatto male. In Germania quando un rabbino ha saputo che ritraevo donne nude mi ha detto: “Questo è grave”. Ma non sono foto alla Cicciolina, guardi qui sul computer, questa mia amica brasiliana». Evgen, ma che corpo ha la sua amica? «Oddio, magari l’immagine è capovolta». Sì, allora torna.

Bacar vi mette una mano in testa, vi tocca il mento, poi si allontana e scatta.

Vi chiede anche com’è il tempo, cosa vedete, cosa sentite. «Grazie, per non aver chiesto. È una vita che mi tormentano con la domanda: come fai? Ma chiedetemi: perché lo fai? Visione, cecità, invisibilità. Scoprire il piacere di possedere qualcosa che gli occhi non hanno inquadrato, ma la mente sì. Non considero la fotografia un pezzo di realtà, sono più vicino a Man Ray. La cecità fisica non può essere simbolica, c’è la capacità di vedere e il desiderio di vedere. Scatto in rapporto ai rumori, ai profumi e soprattutto in relazione alla mia esperienza della luce. Quando scatto, dico sempre: io non ti vedo, ma ti faccio vedere agli altri... Poi scelgo le foto facendomi consigliare da amici con lo sguardo libero e da mia nipote Veronica. L’ha scritto anche Lacan: amare è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole. Io lavoro con l’autofocus e con gli infrarossi, perché il buio è lo spazio della mia esistenza, un’altra forma della luce. La mia prima macchina è stata una Zorki sei, una Leica comunista, regalo di mia sorella. Mi sarebbe piaciuto ritrarre Brigitte Bardot, l’avrei baciata sulla bocca, Marlon Brando e Liz Taylor. Davanti a Vittorio Gassman ho sentito la forza del suo spirito».

Le foto sono strane, magiche, giochi di contorni luminescenti contro sfondi scuri. Un’atmosfera surreale un po’ alla Zavattini. Sembrano dire: così vedono i ciechi, nel modo in cui si sfiora un fiore. O forse siamo sempre lì: abbiamo fatto dell’arte di vedere il mestiere della nostra vita, ma la realtà ci sfugge, e i sentimenti rendono più confusa la nostra visione.

Saramago, nel suo romanzo Cecità scrive di un’epidemia che fa sprofondare nelle tenebre la popolazione di un paese immaginario, e proprio nel mondo delle ombre i protagonisti scoprono aspetti sconosciuti di se stessi e del mondo che credevano di conoscere.

Bavcar insiste: «Impedire a me di fotografare perché sono cieco significherebbe affermare che le immagini le fa la macchina, e non la materializzazione di un’idea, di un desiderio. Un giorno il destino mi ha portato una donna, un amico mi ha chiesto di descriverla. Ho

toccato i suoi capelli e ho pensato: è come un’arpa sostenuta dal vento. Ho accarezzato il suo volto: un orologio, rotondo, preciso, perfetto. Ho sfiorato la sua bocca, una ciliegia nel mese di maggio». Nessuno di noi vede mai tutto.

Bavcar è stato anche in un altro tipo di buio, disperato e infernale. «Nell’anniversario della liberazione dei campi di concentramento sono andato con un mio amico, invalido di guerra, Boris Pakor, 91 anni, scrittore, a Struthof in Alsazia. Toccare il forno, per me è stato terribile. Lui mi ha sussurrato: io qui ho portato i cadaveri. In quel momento lui mi ha dato un’autorizzazione etica a fotografare. Sono tornato al campo di notte, ma le due ragazze che mi accompagnavano non ce l’hanno fatta, sono scappate. È dai lati più oscuri della terra che bisogna cercare la luce. Perché comunque anche se debole e fragile una luce c’è sempre. Di mattina mi hanno portato a pranzo, lì vicino. “Non posso”, ho detto.
Si sogna ad occhi chiusi. Si ritorna nei luoghi visti, senza poterli più vedere.
Bavcar guarda e ti guarda. Occhi azzurri. La vita è carogna, come la nostalgia.
Allora capisci: la luce si perde, ma non si dimentica. Evgen, per favore, scatta.

[ La domenica di Repubblica del 20 febbraio 2005. Articolo di Emanuela Audisio]

Il sito di Evgen Bavcar